
Due giovanissimi border-line, che non vengono dalla periferia malfamata o dalle favelas, ma dal cuore della società borghese: Elias (Markus Rygaard), figlio di due medici, continuamente preso di mira dai bulli della scuola, e Christian (William Jøhnk Nielsen), figlio di un ricco imprenditore, che reagisce al lutto della perdita della madre con una aggressività inquietante perché estremamente razionale e machiavellica. Il loro incontro determina l’incrocio delle loro due famiglie, che attraversano entrambe un periodo difficile: mentre nella famiglia di Christian, come già detto, la perdita della figura materna è alla radice degli squilibri, in quella di Elias sono la crisi matrimoniale e le ripetute assenze del padre a rendere la casa un posto estraneo, in cui è inutile cercare comprensione.
Contro l’istituzione familiare si punta il dito accusatore della Bier, che, attraverso una trama ricca di momenti drammatici e di tensione, vuole mostrare quanto essa non sia all’altezza dei problemi che la assediano dall’esterno, ma anche dall’interno. Il film batte selvaggiamente su questo punto, mostrando le debolezze degli adulti e la loro incapacità di essere guide, perché troppo deboli e contraddittori (Anton, al secolo Mikael Persbrandt), troppo apprensivi (Marianne, interpretata da Trine Dyrholm) o troppo distanti (Claus/Ulrich Thomsen). Al di là delle posizioni che si possono avere sull’argomento, la regista danese riesce a portare, attraverso una storia, una intelligente analisi di come il disagio possa essere assorbito e reinterpretato dai più giovani in modo del tutto imprevedibile. Un applauso al giovanissimo Nielsen, che col suo sguardo di ghiaccio e promette veramente bene per gli anni a venire.
Indicazioni terapeutiche: una amara critica sociale per vaccinarsi da un certo buonismo di matrice catto-borghese.