La sindrome di Alanis Morissette, ovvero la banalità delle persone felici
Se siete stati innamorati qualche volta, è naturale che vi siete sentiti anche un attimino stupidi, come in questa famosa scena di Bambi che ritorna dall’infanzia. Forse perché confondiamo il cinismo con l’arguzia e la rabbia con l’energia. Mentre la serenità, si sa, quella è per gli sciocchi e per i vecchi, per non parlare della felicità che capita solo a chi ha la pancia piena e non è più in grado di cercare nulla.
Prendiamo Alanis Morissette, per esempio: per anni è stata il simbolo di una femmilità ribelle e allegramente distruttiva, spesso arrabbiatissima con l’ultimo amor perduto. Ed era grandiosa, ti dava una carica da poterci correre sotto il sole di mezzogiorno. Poi Alanis ha messo la testa a posto: si è sistemata, ha avuto un bambino. E l’album successivo? Niente di che.
Allora il punto è: bisogna avercela con qualcuno per essere creativi o anche, soltanto, bisogna essere un po’ cattivi per essere interessanti? Forse abbiamo sopravvalutato la forza generativa del conflitto e ci fidiamo così poco dei sorrisi da preferire i musi lunghi e gli sguardi torvi.
Voi fate come volete, ma io mi sento felice adesso – e non lo trovo per nulla banale.
Romeo + Juliet
La sindrome di Romeo e Giulietta, ovvero l’intrinseca tragedia dell’amore vero
Da tempo immemore la cultura occidentale (restringo il campo perché non ho dati sufficienti sulle altre) ha alimentato con il ricatto amori assimetrici e relazioni disastrose – per non parlare dei soldi entrati nelle casse degli psicoterapeuti di tutto il mondo. Perché l’amore, per essere vero, deve essere tragedia, sofferenza e disperazione, nell’ossessiva e cocciuta certezza che prima o poi dal letame nascerà un fiore.
Ah lo struggimento di Romeo e Giulietta! Sarebbero diventati gli innamorati per antonomasia se non avessero versato tante lacrime e un po’ di sangue? Una concezione dell’amore votata al sado-masochismo emotivo, che può farti completamente dimenticare che si può amare anche senza lacrime e pianti.
Disintossicarsi da questo preconcetto non è affatto facile: magari un giorno incontri qualcuno con cui l’amore è una commedia, una cosa semplice – come dice quel cantante che non mi piace ma ha ragione. E l’unico ostacolo vero sapete qual è? La purezza è così luminosa, che quasi non lo riconosci, l’amore.
Ulisse e Penelope
La sindrome di Penelope e Ulisse, ovvero la quotidianità è la rovina dell’amore
Se il matrimonio è la tomba dell’amore e la convivenza – non ne parliamo! – ne è come minimo la camera iperbarica, di contro la lontananza è la più grande ispirazione dell’innamorato. L’amore diventa più forte nella privazione – e lo sapeva bene Ulisse che lasciava che Penelope aspettasse, mentre dava un paio di bottarelle alla maga Circe, alle sirene e a qualche troiana di passaggio.
La lontananza non crea davvero un legame più intenso tra due persone, no, è solo che l’amore per la persona diventa amore per l’idea di quella persona. E l’amore per un’idea è mille volte più resistente, ma non ha niente a che fare con la persona che russa accanto a voi ogni notte.
Propongo una ricetta nuova: torniamo da quella persona, guardiamola mentre si fa la barba, mentre si annusa le ascelle, mentre facendo colazione sporca la tovaglietta. Fatto? Avete sorriso? Bene!
Non è che sia poi difficile essere innamorati, non è che serva il pegno di un cuore insanguinato. Serve guardarsi dentro e scoprire di essere felici, tutti i giorni. Magari non tutti i giorni tutto il giorno, ma sì tutti i giorni – per parafrasare Charlotte in Sex and the City.
Concordo in pieno con il tuo articolo!